Segregazione della comunità burakumin dall’antichità al terzo millennio
Roberta Tofful

Figli invisibili del Giappone

Nell’immaginario collettivo il Paese del Sol Levante è emblema di benessere, civiltà e progresso. Le arti sublimi, dalla pittura alla calligrafia, dalla letteratura alla preparazione dei cibi, sono lo specchio di una società colta e raffinata. Eppure, all’ombra dei grattacieli e dei templi scintillanti, brulica un’umanità dimenticata, ammassata in ghetti fatiscenti; tre milioni di persone che da oltre un millennio combattono contro la segregazione, mentre gli organi di informazione fingono di non sapere. I burakumin, letteralmente “gente del villaggio”, sono giapponesi a tutti gli effetti: stessa etnia, lingua, religione, cultura. Pagano lo scotto di essere i discendenti di macellai, conciatori di pelli, becchini, ritenuti “impuri” dal sistema filosofico shintoista per via del loro contatto con il sangue e la morte. Fuori casta in epoca feudale, essi rimasero tali, di fatto, anche dopo l’emancipazione del 1871, continuando a svolgere lavori umili e debilitanti, tagliati fuori dalla possibilità di un’ascesa culturale ed economica. Questo testo indaga nella loro storia e le molteplici cause della cristallizzazione di questo peculiare fenomeno discriminatorio. Racconta le battaglie per i diritti umani condotte dalle associazioni per la liberazione e individua nell’educazione, in particolare delle nuove generazioni, l’arma vincente per restituire la dignità a milioni di individui.

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